Tratto dal Blog "La Factory del dissenso" Stampa
Venerdì 03 Ottobre 2008 12:38

di stefano havana, 3 Ottobre 2008

 

Non lo so come la pensiate voi sulla vicenda Sandri. Quello che so io è che un tizio in divisa ha fatto fuori un ragazzo e che se le parti erano invertite - cioè se un ragazzo faceva fuori un tizio in divisa - adesso il ragazzo stava già dentro, come ha dimostrato il caso Speziale, per l’omicidio Raciti, il cui processo si è aperto ufficialmente giusto il 30 settembre. (Speziale molto probabilmente non ha fatto fuori nessuno, beninteso, ma quando si parla di contese legate al tifo e ai tifosi la giustizia italiana funziona con la velocità di un lampo, quindi con tutti i pro e i contro che tale irruenza comporta, per esempio gli errori e le sviste, chiamiamoli così, dai, oggi mi sento proprio buono: errori, sviste. Perciò, intanto, nel dubbio, per fare presto, due anni fa hanno preso e messo dentro questo ragazzo, allora addirittura minorenne per un crimine le cui responsabilità sono ancora tutte da dimostrare. Checché ne dicano i Serra, Crosetti e pennivendoli simili, tizi del tutto incapaci di non avere una visione dell’esistenza parossisticamente manichea, checché ne dicano loro, in Italia, di fatto, l’unica categoria di persone che paga PUNTUALMENTE e con tempestività i propri errori, presunti o tali, questa categoria è quella dei tifosi. Altro che isola felice. I tifosi pagano sempre e, spesso e volentieri, in qualità di capri espiatori. Un giornalista imbellettato col foulard bianco e l’attico al Palatino è sicuramente la persona migliore, e più indicata, per tirare fuori giudizi sommari sul bene e sul male. Vero?)

Non so come la pensiate voi, dicevo, a proposito della vicenda Sandri. Di certo c’è che Gabriele è morto e via dicendo. Di certo c’è una verità che fa più male ancora della morte e questa è la considerazione che il perpetratore di tale assassinio è ormai un anno che continua a fare il suo lavoro, quello di tutore dell’ordine, protetto dalla stampa, dal governo, dai colleghi: dell’agente Spaccarotella s’è saputo il nome solo a fatica e non se ne conoscono tuttora le fattezze. “E’ minacciato”, dice la difesa, “Ha paura”, aggiunge ancora: io mi sono sentito in dovere di presentarmi sempre in aula per un processo che mi pende sul capo a proposito di una banale questione di diffamazione e un individuo, che è stato vestito della divisa dallo Stato Italiano, e poi armato, accusato di omicidio, forse volontario, non trova niente di meglio da fare, ancora una volta, che puntare il dito indice, per fortuna questa volta senza alcun grilletto sotto, verso la gente, verso i ragazzi, verso di NOI, perché secondo lui, secondo la difesa, lo stiamo minacciando. Ci risiamo. Lui fa fuori un ragazzo, un giovane che grondava vita e passioni, e dovremmo essere NOI a vergognarci. Noi a fare un passo indietro. NOI a sentirci rimproverati. Ci risiamo. Un’altra volta. I preti sono pedofili ma siamo NOI i peccatori. Non è rimasto un solo politico pulito ma siamo NOI quelli che devono pagare le tasse. I potenti fanno levitare il prezzo del petrolio e siamo NOI che dobbiamo pagare i loro pieni di benzina. Beppe Grillo vuole sostituirsi al nostro cervello, ma è a NOI che chiede i soldi per le sue attività di santone indiano del cazzo. Ci risiamo. E ci piace, evidentemente. Ce lo facciamo fare. Ci pieghiamo con convinzione: dalle parti mie ci si bacia, prima di infilarselo nel culo, diceva Michael Douglas in “Black Rain” di Ridley Scott. Noi manco più quello. Ci abbassiamo direttamente i pantaloni e, zing, ce lo facciamo infilare nel culo dallo Stato, dai telegiornali, dagli articoli che si preoccupano più che altro di stigmatizzare la presenza degli “scorbutici” tifosi della Lazio fuori del Tribunale. Come fatto notare già da Giornalettismo, qualche giorno fa, di recente “Panorama” se n’è venuto fuori con questa Grande Inchiesta Rivelatrice, secondo la quale le tracce del proiettile esploso da Spaccarotella erano riscontrabili su una rete metallica divisoria presente prima dell’autogrill scenario della tragedia. Pagine e pagine firmate e controfirmate da “Panorama” per sollevare il dubbio che effettivamente il proiettile potesse essere stato deviato verso la gola di Gabriele. (Teoria e Tecnica della Deviazione del Proiettile: ne fu fatta una grande dimostrazione pubblica a Genova, un caldo luglio di sette anni fa) Peccato che quella rete metallica fosse stata messa lì solo alcuni mesi DOPO l’omicidio di Sandri e che le tracce riscontrate fossero perfettamente compatibili con i materiali utilizzati per la lavorazione della rete stessa. Ci risiamo. E va bene così. Leggiamo questa merda sui giornali e annuiamo dietro i nostri cappuccini col cuoricino di panna disegnato.

Scuotiamo le teste: ci indignamo perché i tifosi del Napoli hanno divelto un treno. Poi vai a domandare, vai ad informarti e scopri che QUEL treno, il treno “completamente vandalizzato dai barbari” non esiste, non si trova, non c’è. Naturalmente non se ne parla, di questo fatto, perché, nel frattempo, con una velocità da cartone animato, i presunti responsabili sono finiti in galera, le curve degli stadi svuotate e tutti vivono felici, col guinzaglio e contenti. Solo che il treno vandalizzato, barbaramente distrutto, non c’è. E un ragazzo tedesco, presente sul treno, intervistato da la Repubblica, ha confermato, giurato e spergiurato che su quel treno, “Il treeenoooo deeelllaaaa vergoooognaaaaa” non è successo niente. Enneieennetie. Niente. Però i perbenisti scrivono. I manichei dondolano sulle loro amache in corsivo e decantano la purezza dei loro sentimenti e del loro agire a discapito del Male Assoluto che, invece, serpeggia fuori. Ci risiamo. L’agente Spaccarotella, tuttora in servizio, non si sa dove sia: gli danno la scorta. Gli danno la scorta, a Spaccarotella. Lo fanno lavorare nell’anonimato, a Spaccarotella. Uno che un bel giorno ha preso e, da 70 metri di distanza, ha sparato nel mucchio. La scorta, ci ha. E poi forse scriverà un libro, come la Franzoni, che titolerà “La mia verità” e quella verità, in mancanza di un processo degno, resterà l’UNICA verità. E a noi ci piace. Ce lo facciamo infilare nel culo. Mattina dopo mattina, davanti ai nostri croissant e scarpe firmate. E’ morto Gabriele, che faceva il deejay, ma poteva morire Carlo, che faceva volontariato, poteva crepare ammazzato Federico che era appassionato di arti marziali, poteva morire Stefano, che ci sapeva fare con la scrittura, poteva morire Patrizio, uno che sarebbe diventato un grande giornalista, poteva morire Serena, una talentuosissima ballerina di tango, che ne so, al limite potevamo morire tutti in quell’autogrill di Badia al Pino. Invece è morto Gabriele. Invece è stato il papà di Gabriele, che si chiama Giorgio, una mattina di settembre a doversi annodare per bene la cravatta e a presentarsi a un processo terribile, emotivamente estenuante, per vedersi rispedito a casa venti minuti dopo, per un vizio di procedura. Invece è stato alla mamma di Gabriele che hanno detto signora guardi, se ne può tornare in macchina, ci rivediamo tra due mesi. E’ toccato a loro, non ad altri. E’ a loro che bisogna rispondere, dire. E’ per loro, anche, la giustizia che si vorrebbe e che invece non arriva mai. E’ per noi. Che invece ci inchiniamo, ci facciamo annichilire, ci abbassiamo i jeans. E scopriamo che ci piace. Perché, invece, non proviamo a dire no? Incolliamo gli adesivi, non è reato, compriamo il libro di Maurizio Martucci sulla vicenda, (già esaurita la prima edizione, BENE!) mi sono informato, è un libro onesto, pulito, dettagliato e preciso; parliamone, senza amache, senza televisioni padrone. Senza indici puntati o indici d’ascolto. Torniamo a far pendere la bilancia quantomeno in una posizione di centro. Altrimenti non c’è partita. Che sia per NOI questa giustizia, non soltanto per Gabriele e gli altri morti ammazzati senza una verità. Su i pantaloni, adesso, è arrivato il momento, e serrate le chiappe.

Ultimo aggiornamento ( Domenica 05 Ottobre 2008 18:55 )